Dal momento in cui nasciamo i sensi diventano le nostre finestre sul mondo. Suoni, odori, sapori, stimoli tattili e, più in generale, ogni esperienza sensoriale, lascia tracce, giorno per giorno, nell’intricata rete neuronale di cui è fatto il nostro cervello. All’inizio questa attività – che ci consente di dare un senso alla realtà – avviene in modo spontaneo e ci permette di riconoscere alcuni stimoli fondamentali: ad esempio, distinguiamo la voce materna da quella di un estraneo, un corpo umano in movimento da uno statico e così via. Ben presto le nostre capacità discriminative si affinano non solo grazie ai processi di maturazione cerebrale, ma anche e soprattutto grazie alle nostre esperienze.
Ma in che modo realizziamo pienamente noi stessi e la nostra individualità? Se da un lato la genetica gioca un indubbio ruolo fondamentale, dall’altro vi è l’unicità delle nostre esperienze, dei nostri ricordi o, come ci fa notare Alberto Oliverio, dell’immagine che ci rinvia lo specchio. Dal punto di vista psicobiologico, infatti, lo sviluppo del nostro Io è l’esito di un complesso processo in cui appare pressoché impossibile separare i geni dall’ambiente, la natura dalla cultura. Suggestiva è la metafora a cui l’autore ricorre per accompagnarci alla scoperta della nostra storia biologica e psichica.
La storia evolutiva di ognuno di noi può essere paragonata alla tessitura di un tappeto che, inizialmente, è formato da pochi nodi che poco ci dicono su quello che sarà il disegno finale: man mano questo disegno diviene sempre più visibile e, in linea di massima, corrisponde al disegno cui si ispira. Come ogni manufatto artigianale, un tappeto può contenere alcuni errori, o variazioni sul tema: altrettanto avviene per il sistema nervoso che si ispira a un disegno genetico, ad informazioni contenute nei geni, ma devia dal progetto ideale per divenire qualcosa di estremamente individuale, il prodotto di una complessa e irripetibile interazione tra geni e ambiente.
L’Io, in altre parole, è il prodotto di comportamenti, desideri, decisioni, dei significati che attribuiamo alle nostre esperienze, ai fatti della nostra vita. Non solo. Recenti acquisizioni della biologia – sulla cosiddetta espressività genica – hanno evidenziato come nuove esperienze e apprendimenti regolino l’efficacia delle connessioni tra cellule nervose, modificando, sia dal punto di vista strutturale che funzionale, il nostro cervello. L’antica idea filosofica secondo cui compito dell’educazione è “dare forma” al cervello assume tutta la sua forza, con conseguenze cruciali per la ricerca scientifica.
Al centro della proposta neuropedagogica – viene definito così l’incontro tra neuroscienze e insegnamento – c’è il principio della plasticità neuronale, ovvero il fatto che il cervello modifica la sua struttura a partire da stimoli ambientali. Sorridere, parlare, confortare un bambino, insegnargli a camminare, raccontargli una storia, rinforzare o disincentivare le sue condotte, sono i mattoni di base di una azione pedagogica strettamente legata alla maturazione della mente e del cervello infantile. Attenzione: la neuropedagogia non intende sostituirsi alla pedagogia, ma vuole indicare a genitori e docenti in che modo numerose esperienze dipendano da come è fatto e funziona il cervello e come queste conoscenze possano tradursi in un migliore processo formativo. Troppo spesso, infatti, ci si riferisce ai bambini e al loro comportamento come ad entità astratte. Oggi sappiamo che questo non è plausibile. Le moderne tecniche di visualizzazione cerebrale, ci dicono molto di più sui processi di maturazione ed interazione delle varie aree del cervello; su come le esperienze – sensoriali, motorie, culturali, interpersonali, emozionali – non solo contribuiscano allo sviluppo delle capacità cognitive, ma lascino anche una “impronta” nel nostro cervello.
Le strategie neuropedagogiche sono ormai numerose. Alcune di esse, ad esempio, sfruttano l’associazione tra emozioni positive, apprendimento e memoria, combinando tra loro diversi aspetti dell’esperienza. Per citare solo un esempio, alcune scuole materne francesi hanno sperimentato il metodo dell’insegnamento della lettura con l’uso delle dita. In altre parole, la lettura viene così appresa attraverso tre diverse dimensioni: la forma visiva di una lettera, i suoni corrispondenti e il tatto che, nella prima infanzia, è il senso più sviluppato e naturale. Con questo metodo i bambini imparano a riconoscere le parole molto più rapidamente rispetto al metodo tradizionale. La ragione principale è che nel corso del suo sviluppo, il cervello ha bisogno di fare esperienze tattili e motorie affinché maturino quelle aree necessarie allo sviluppo di processi cognitivi di ordine superiore, come il linguaggio e il pensiero complesso. Secondo l’approccio neuropedagogico la mente infantile è concreta, basata sull’interazione diretta e su una serie di tentativi, anche infruttuosi, promossi dal bambino e non prefigurati da programmi.
Il libro di Alberto Oliverio arriva in un momento delicato per il dibattito sulla natura dell’educazione e ci indica con autorevolezza la via da seguire nel delicato compito delle scienze dell’apprendimento. Una via che non si lascia irretire nelle contrapposizioni ideologiche di chi ritiene, spesso con retorica, che le cose stiano in un modo o nell’altro. Gli alfieri in conflitto delle due culture (quella scientifica e quella umanistica) troveranno in questo bellissimo libro l’esempio della virtù intellettuale della misura.
Il libro è disponibile su GIUNTIalpunto