Fin dal mondo antico, il termine malinconia – dal greco, mélaina (scuro, nero) e cholé (bile) – ha designato un sentimento di tristezza, di umore depresso, apatia, infelicità e, talora, ipocondria. Anche se molti dati sembrano indicare una condizione crescente di sofferenza legata alla vita contemporanea, la malinconia colpisce chiunque: il monaco che vive nelle quiete solitudini del deserto, le persone comuni, gli artisti: ne furono afflitti, tra gli altri, Tasso, Baudelaire, Beckett, Flaubert, Proust e innumerevoli altri. Ma cosa ne sappiamo oggi? Negli ultimi decenni le conoscenze scientifiche e terapeutiche delle diverse forme di ciò che chiamiamo oggi depressione hanno fatto notevoli progressi. La ricerca scientifica ha fornito nuovi elementi utili alla sua comprensione. L’introduzione, poi, di nuovi trattamenti ci ha permesso di raggiungere risultati non inferiori a quelli di altri settori della medicina, dando risposta anche a quelle forme cliniche prima intrattabili. Un dato tra tutti: l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato che la depressione è attualmente ai primi posti tra i maggiori problemi sanitari in Occidente. Malauguratamente, i rischi aumentano soprattutto per le donne: insomma, una patologia declinata al femminile, in pericoloso aumento.
Detto questo, cos’è davvero una esperienza depressiva? Chi l’ha sperimentata racconta sofferenze così intense e pervasive difficilmente immaginabili da chi non le abbia provate. Non sentirsi compreso nel proprio dolore rende più acuto il senso di pena. Consigli, esortazioni a reagire e a farsi forza, accentuano solo la disperazione e la solitudine del paziente. Egli avverte, con penosa intensità, un implacabile impoverimento affettivo e, insieme, la perdita del contatto con il fluire vitale del mondo. La scena è dominata da sentimenti di impotenza e sconfitta. Le notti insonni, popolate di paure e sconforto, sono attese con terrore. I giorni iniziano con l’incubo di nuove e interminabili prove da affrontare. Finanche semplici attività come alzarsi, lavarsi, passeggiare ed altro ancora, costano sforzi indicibili. I giorni copiano i giorni, uno dopo l’altro, senza schiarite, rafforzando la visione pessimistica che il paziente ha del proprio futuro. Egli, infatti, è inchiodato a una disperazione profonda, che investe ogni aspetto personale. Questo è il motivo che lo rende indifferente ad ogni incoraggiamento, indisponibile ad ogni esortazione. Il futuro scompare e, con esso, la possibilità di risollevarsi. L’esito è che anche gli aspetti più vitali sono tremendamente deformati. Vanno cercati qui alcuni dei motivi del suicidio, come estrema difesa da un’angoscia senza fine.
Eppure, nonostante tutto, la speranza resta parte essenziale della vita dell’uomo: anche quando si presenta come uno sperare che non spera nulla. Anche di fronte a tutto questo, la speranza ha sempre una dimensione creatrice, perché trae forza dal vuoto, dalle avversità. La speranza crea restando sospesa al di sopra della realtà, pur senza ignorarla; lascia emergere mondi inediti, parole non dette. Questa speranza può crescere anche nel deserto dell’angoscia, della disperazione, del male di vivere. Come un ponte essa ci guida fuori dalla nostra solitudine mettendoci in relazione con gli altri. Restituisce all’uomo la possibilità di camminare sulle proprie macerie interiori, recuperando frammenti inattesi di avvenire. Qualcuno ha detto: “Io non so perché la gente pensa all’inferno come un luogo dove fa caldo e dove ardono le fiamme. Questo non è l’inferno. L’inferno c’è se sei gelato nell’isolamento, in un blocco di ghiaccio”. Eppure angoscia, sofferenza, orrore per la nuda esistenza possono dare senso alla vita interiore. Umanissimi sentimenti che ci elevano sopra il tempo che passa, che tolgono dall’oblio, dove erano custodite, le verità dell’anima.