Un altro anno sta per lasciarci. Porta via con sé un carico insostenibile di angosce e di parole. Tante, troppe parole. Parole consunte, di cui facciamo fatica a riconoscere il significato. Come se il linguaggio non riuscisse più a farsi carico di una realtà lacerata, bucata. Come se ogni parola fosse ormai un residuale gesto fonologico, l’eco di un dramma che ci vede attori e spettatori incapaci di raccontare noi stessi. In questa indigenza di pensieri e parole, quasi niente riesce ad esprimere la realtà come è. Le cose non stanno più al loro posto, e il linguaggio non sa più raccontarle. Peggio: più il deserto si allarga, più orrida è la violenza che ci assedia, più le voci si moltiplicano, assordanti, come il segno di una disperazione senza redenzione, in perfetta sintonia con la tonalità apocalittica del nostro tempo. Nessuno ormai riesce più a restituire le parole alle cose, a ristabilire un ponte con la realtà.
In cosa riporre, allora, speranza? Avremmo bisogno di uno sguardo nuovo, di diventare noi stessi sguardo nuovo. Ma in che modo se non siamo più nemmeno in grado di sentire, tanto i nostri desideri si sono smaterializzati. Il nostro stesso corpo somiglia sempre più a uno spazio chiuso dove si consumano esperienze virtuali, senza più relazioni. Ora, se da un lato la presa d’atto di come stanno le cose rivela le patetiche illusioni sulla nostra tendenza naturale alla socialità, sulla nostra costitutiva propensione alla relazione umana, dall’altro ci mostra una direzione diversa da prendere, opposta alla rassegnazione e allo sconforto. Ci spinge a un nuovo slancio, a un nuovo vigore. Insomma, ci rimette in condizione di agire. Del resto, lasciandoci andare alla preoccupazione, all’autocommiserazione, alla penosa constatazione delle miserie e delle insufficienze proprie e altrui, rinunceremmo definitivamente a capire. Occorre, invece, dare un senso al dolore e al male. Affrontare i nodi. Con tutto ciò che le sofferenze, le rinunce, le frustrazioni, portano con sé. L’uomo si ammala a causa della sua incompiutezza e indeterminatezza. Finanche a causa della sua stessa libertà. Allora siamo tutti chiamati alla responsabilità, alla cura che lenisce la sofferenza nostra e altrui. Ma occorre scendere in profondità. I problemi della vita sono insolubili alla superficie. Solo scendendo in profondità potremo riconoscere le questioni fondamentali della nostra vita.
Si dirà: eccoci nuovamente alla retorica della profondità. No, al contrario. Si tratta di riprendere il discorso che abbiamo interrotto sull’abisso sconosciuto che siamo. Quante infinite cose ignoriamo di noi stessi! Si tratta di prendere distanza dalla vuota apparenza, dal gioco narcisistico di specchi che ci rendono stupidi (e finiranno per perderci), per sentire scorrere in noi la corrente profonda della vita. Credo che la felicità nasca dal sentire la vita più che dal riflettere sul senso della vita. Provare ad essere il sale della terra vuol dire staccare gli occhi dagli ingannevoli riflessi dei nostri devices e rientrare in comunione con gli altri, con coloro che abitano il nostro passato, con i volti delle persone prossime. Vuol dire rinnovare il bisogno, anche fisico, di conversazioni amabili, sperimentare la gioia di un convivio con amici in un ristorante ‘fuori porta’, il senso della festa vissuta insieme. Vuol dire, insomma, rendere testimonianza di noi a noi stessi, riabituarci all’umiltà del confronto con le nostre idee e le nostre emozioni, fermandoci prima di quell’abisso verso cui siamo velocemente diretti e facendo ritorno, con rinnovato coraggio, verso il gioco duro e affascinante della vita.